Mannaggia alla Maiella!
Aspra, remota e impressionante. Si trova in Abruzzo uno dei pochi luoghi rimasti in Europa dove provare il piacere sublime del perdersi
La Maiella è una imprecazione formidabile. Le popolazioni locali non possono farne a meno. Si impreca solo con cose grandi che ci stanno vicino, se sono dèi o dèe è meglio, solennemente li si chiama a presenziare. Non c'è da augurare il male, piuttosto bisogna scovare la forza per reagire alla fatica, alle avversità, agli inciampi inevitabili. La formula valida non nasce a caso, non si impreca con cose di poco conto. La Maiella è un'imprecazione bella tonda, pressoché perfetta.
Capitava di sentirla già subito dopo che, triste, di ritorno dal suo viaggio in cerca del figlio, la dèa Maja si è fermata qui per sempre. Una madre aspra, integerrima, ma pure accogliente e di sorprendente soavità. Ovunque, nei valloni più severi del massiccio alto e solenne, rotondo un centinaio di chilometri, eremi medievali e luoghi di culto preistorici ricordano che è una montagna sacra, da quando esiste il sacro. Da lontano, ben visibile da gran parte dell'Abruzzo, sembra a portata di mano. Man mano che ci si avvicina alle sue pareti torna remota, impressionante, lontana. Enorme.
Sdraiata sulla linea degli Appennini, poco a sud del Gran Sasso, è di questo e degli altri monti un'antitesi. Si va sui monti per vincerli, per raggiungerne le cime e tornare indietro il più in fretta possibile: sono i monti, i maschili. Una volta superata l'erta durissima, nella montagna invece ci si finisce dentro, sembra sempre di tornare anche se è la prima volta, e si apre un mondo rude e solo all'apparenza inospitale, con canyon profondi e bastioni di roccia che sfiorano il migliaio di metri, collere atmosferiche improvvise, altopiani carsici sopra i duemila che ti sembra di stare nelle steppe dell'Asia Centrale, grotte come se piovesse, selve cupe, cascate, più una sessantina di cime. I lupi, le aquile e gli orsi non si sono mai estinti. Qui una volta c'era la grande acqua del mare, ci si siede un momento a inveire su conchiglie, gasteropodi e zanne di pescecane grandi come bambini. Di vere ragioni per andarci non ce ne sono. Ragioni logiche diciamo. Gli escursionisti temono i suoi interminabili sentieri, gli alpinisti non si sentono a sufficienza sfidati. E' uno dei pochi luoghi rimasti in Europa dove si può provare il piacere sublime del perdersi.
Una madre forte, selvaggia, ma capace di suscitare sorrisi imprevisti. Come ogni madre è stato nutrimento, per migliaia di anni. Sono state proprio la durezza, la ricchezza e la bellezza attonita del paesaggio a favorire le diverse forme di insediamento. Sono stati i pascoli d'alta quota ad aver fatto ricco l'Abruzzo, qui finiva il percorso della transumanza che partiva dalle Puglie e coinvolgeva greggi a milioni. Qui si spostavano gli eremiti sacramentando, dai primi orientali al papa Celestino V, quello del gran rifiuto. L'ultimo si chiamava Teodoro Paterra ed è sceso negli anni sessanta, ma alcuni continuano a vagare. Dentro di lei si sono rifocillati e hanno imprecato i banditi e i briganti affannati, isolati o in bande sparite dopo escursioni rapinose.
Il paesaggio è esaltante, gli echi perentori. La fatica poi, e le difficoltà di sopravvivenza accentuano il fervore. Ora c'è chi avrebbe voglia di ridurre la Maiella a emblema, a simbolo del rigoglio della natura selvaggia, ma si trattiene. Quelli che si innamorano di lei non ne parlano per scaramanzia.
E al ritorno, quando si torna, dal basso, dai piccoli paesi incastrati o aggrappati alle rocce dai nomi di ceramica o di legno tornito, di rame e di merletto, si viene rassicurati dal suo nome ripetuto, ecoante, mai accompagnato da invio più greve o volgare di quel Mannaggia che è piuttosto laconico e devozionale ingraziarsi, attenuarsi cerimoniale o singulto pagano, preventivamente liberata la formula da ogni pensiero odioso, che ne guasterebbe certo la carica magica.
Capitava di sentirla già subito dopo che, triste, di ritorno dal suo viaggio in cerca del figlio, la dèa Maja si è fermata qui per sempre. Una madre aspra, integerrima, ma pure accogliente e di sorprendente soavità. Ovunque, nei valloni più severi del massiccio alto e solenne, rotondo un centinaio di chilometri, eremi medievali e luoghi di culto preistorici ricordano che è una montagna sacra, da quando esiste il sacro. Da lontano, ben visibile da gran parte dell'Abruzzo, sembra a portata di mano. Man mano che ci si avvicina alle sue pareti torna remota, impressionante, lontana. Enorme.
Sdraiata sulla linea degli Appennini, poco a sud del Gran Sasso, è di questo e degli altri monti un'antitesi. Si va sui monti per vincerli, per raggiungerne le cime e tornare indietro il più in fretta possibile: sono i monti, i maschili. Una volta superata l'erta durissima, nella montagna invece ci si finisce dentro, sembra sempre di tornare anche se è la prima volta, e si apre un mondo rude e solo all'apparenza inospitale, con canyon profondi e bastioni di roccia che sfiorano il migliaio di metri, collere atmosferiche improvvise, altopiani carsici sopra i duemila che ti sembra di stare nelle steppe dell'Asia Centrale, grotte come se piovesse, selve cupe, cascate, più una sessantina di cime. I lupi, le aquile e gli orsi non si sono mai estinti. Qui una volta c'era la grande acqua del mare, ci si siede un momento a inveire su conchiglie, gasteropodi e zanne di pescecane grandi come bambini. Di vere ragioni per andarci non ce ne sono. Ragioni logiche diciamo. Gli escursionisti temono i suoi interminabili sentieri, gli alpinisti non si sentono a sufficienza sfidati. E' uno dei pochi luoghi rimasti in Europa dove si può provare il piacere sublime del perdersi.
Una madre forte, selvaggia, ma capace di suscitare sorrisi imprevisti. Come ogni madre è stato nutrimento, per migliaia di anni. Sono state proprio la durezza, la ricchezza e la bellezza attonita del paesaggio a favorire le diverse forme di insediamento. Sono stati i pascoli d'alta quota ad aver fatto ricco l'Abruzzo, qui finiva il percorso della transumanza che partiva dalle Puglie e coinvolgeva greggi a milioni. Qui si spostavano gli eremiti sacramentando, dai primi orientali al papa Celestino V, quello del gran rifiuto. L'ultimo si chiamava Teodoro Paterra ed è sceso negli anni sessanta, ma alcuni continuano a vagare. Dentro di lei si sono rifocillati e hanno imprecato i banditi e i briganti affannati, isolati o in bande sparite dopo escursioni rapinose.
Il paesaggio è esaltante, gli echi perentori. La fatica poi, e le difficoltà di sopravvivenza accentuano il fervore. Ora c'è chi avrebbe voglia di ridurre la Maiella a emblema, a simbolo del rigoglio della natura selvaggia, ma si trattiene. Quelli che si innamorano di lei non ne parlano per scaramanzia.
E al ritorno, quando si torna, dal basso, dai piccoli paesi incastrati o aggrappati alle rocce dai nomi di ceramica o di legno tornito, di rame e di merletto, si viene rassicurati dal suo nome ripetuto, ecoante, mai accompagnato da invio più greve o volgare di quel Mannaggia che è piuttosto laconico e devozionale ingraziarsi, attenuarsi cerimoniale o singulto pagano, preventivamente liberata la formula da ogni pensiero odioso, che ne guasterebbe certo la carica magica.
tradizioni della maiella
Ti ringrazio molto,
Lucilla del Giudice